Anoressia: la storia di Aurora

Anoressia: la storia di Aurora, una giovane ragazza che ha voluto condividere con noi il suo difficile percorso di rinascita con grande generosità, forza, intensità e poesia.

Aurora ha vissuto una condizione che l’ha portata ad assumere condotte alimentari estenuanti e di grande impatto sulla sua salute psicofisica.

Ne è uscita in seguito ad alcuni ricoveri e un lungo lavoro su di sè, insieme a una psicoterapeuta, ma anche grazie ad una consapevolezza che ha maturato attraverso un’esperienza inaspettata: l’incontro con un cactus, simbolo di resilienza e di forza vitale.


Anoressia, cactus e tatuaggi: la storia di Aurora

Un cactus per gamba, dietro, sulla coscia.

Non volevo tatuarli davanti, si vedono troppo, d’estate o cosa, con un bel vestito. Ma dietro sì, forti sul muscolo con tutte le loro spine, e quando arrampico mi piace un sacco l’idea di questi due cactus che spingono, che pungolano le gambe a salire ancora, a non mollare.

Ero anoressica.

Tiravo avanti in una finta normalità, nascondendomi dietro a grandi sorrisi e distruggendo me stessa quando ero da sola.

Ogni notte era un’estenuante abbuffata, infinito cibo bruciato, scotto, troppo, troppo salato, troppo dolce, troppo freddo, vecchio e troppo troppo disgustoso e le dissanguanti vomitate, a testa china, gli occhiali sporchi, i capelli penduli a sfiorare il bordo del water.

Ogni notte bere bere bere tanta acqua calda per vomitare meglio, ogni notte le orecchie tappate, il mal di gola, la testa che scoppia, la faccia gonfia, e guardarsi allo specchio bevendo acqua e dirsi scema cogliona vedi che l’hai fatto di nuovo e ora fai schifo.

Ma dopo ogni notte arriva il mattino.

Mi alzavo svuotata, disperata, stanca, stremata da questo perverso negarsi la vita, con un sacco di fame e un sacco di paura di mangiare, perché quella cosa poteva ricapitare, in ogni momento, con il minimo stimolo. Dentro di me c’era una bestia pronta ad attaccare alla minima disattenzione.

Con tutti i postumi della giostra autodistruttiva dell’abbuffata mi alzavo dal letto e attraversavo la cucina per arrivare in bagno. Su un mobiletto in cucina avevo scaricato, senza dargli troppa importanza, il regalo di un tipo che ci provava con me, all’epoca. 

Una pianta grassa, un palettone peloso, un cactus.

Presa dal mio buio non mi occupavo minimamente del dono e avevo abbandonato il cactus al suo destino, senza degnarlo di uno sguardo dopo che, bagnandolo per l’ unica volta, mi ero trovata i palmi bianchi di fittissime, sottilissime, fastidiosissime spine.

Ma non potei astenermi dal notare, una nuova dolorosa mattina, quando la vita sembrava girare intorno ad un unico, sibilante dolore e il risveglio era solo il primo peso, che il cactus aveva figliato.

Quella canuta figura era per me niente più di un soprammobile. Statico, da non avvicinare troppo, senz’acqua da quanto? Pensavo fosse morto.

Eppure aveva indiscutibilmente prodotto. Accanto alla base del palettone, verde scuro e con ciuffi di peletti bianchi, stava un affaretto, una pallina allungata, una spighetta, una bubbetta verde chiaro, coi suoi cisposi ciuffetti.

Un verde chiaro da spezzare il cuore per la sua brillantezza, in contrasto all’austerità del grande cactus.

Me ne stavo lì, rincoglionita dalla nottata, i piedi scalpiccianti sul pavimento di cucina, sul tavolo i resti di una battaglia perduta, e quel germoglio spinoso mi faceva venire le lacrime agli occhi.

Capite, era venuto dal nulla!

Quella pianta abbandonata, dimenticata, riarsa e secca, aveva trovato dentro di sé l’energia per fare un germoglio.

Un germoglio di un verde vivissimo, che pareva turgido dell’acqua che non poteva avere.

Quanta vita in quella pianta! Non aveva nulla, eppure non solo continuava a vivere ma aveva dato a sua volta la vita.

Siccome i parallelismi esistono per essere sfruttati, sentivo di essere anch’io un po’ come quel cactus: pur privandomi del nutrimento, spirituale e materiale, riuscivo a uscire in mezzo alla gente, a sorridere, a lavorare, a guidare la macchina.

Anche senza il cibo che gli spettava, il mio corpo mi portava avanti, con la forza irresistibile dell’ istinto di sopravvivenza.

Quando si è in malnutrizione il corpo attua delle difese per la sopravvivenza. Dà la precedenza al benessere degli organi interni, gli unici necessari per sopravvivere (il cervello viene presto lasciato indietro in quanto di secondaria importanza).

Ma polmoni, cuore, stomaco e fegato vanno preservati. Devono stare al caldo. Un corpo scheletrico non ha grasso che lo scaldi e quindi ha bisogno di una maggiore irrorazione sanguigna per mantenere una temperatura dignitosa.

Ma il sangue non basta a scaldare tutto il corpo, ecco intervenire la vasocostrizione che porta tutte le vene a “ritirarsi” sottopelle per riscaldare, appunto, gli organi interni.

Per patire meno il freddo dell’ epidermide il corpo, sempre lui, fa spuntare su ovunque dei finissimi peletti che prendono il nome di lanugo.

Guardavo le soffici spine del cactus e pensavo al mio corpo tanto maltrattato che mi aveva steso addosso una coperta di peletti per non farmi patire il freddo e a quella cavolo di pianta che senza nulla aveva tirato fuori un germoglio.

Quello spinotto verde mi aveva smosso qualcosa, mi aveva mostrato la forza della vita che vuole vivere e che s’impone anche nelle condizioni più beffarde. Per questo il secondo germoglio, pochi giorni dopo, mi ha fatta commuovere, imbracciare l’innaffiatoio e pensare che era ora di cambiare.

Non è stato certo già al terzo che fossi guarita, ma ho iniziato la mia battaglia e questa pianta incredibile è già rinata da se stessa un’infinita quantità di volte.

Per questo mi sono scritta la forza addosso, con l’inchiostro ho chiesto un palettone con il suo figlioletto verde chiaro attaccato alla base.

Per sapere che la vita è forte, fortissima, è un dono ed è un miracolo che fa piangere di fronte ad un cactus.


Se preferite ascoltare questa storia anziché leggerla, ve la narro attraverso la mia voce:


Se volete anche voi inviarmi le vostre storie, in forma anonima, potete contattarmi alla mail dott.laura.salvai@gmail.com

Attenzione: Per il rispetto e la tutela di chi ha portato la propria testimonianza, in questa storia è stato utilizzato un nome fittizio.